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Se per Bachelard "Il fossile non è semplicemente un essere che ha vissuto, è un essere che vive ancora, addormentato nella sua forma", Clara Janés va più in là. Ben lontani dall'essere dei simulacri, i suoi fossili riscattano l'organicità della materia la cui sopravvivenza, animale o vegetale, mette in gioco una temporalità complessa che finisce per acronizzare il tempo stesso. Segni e cose che attraversano il tempo e "giocano contemporaneamente su due tavoli" (Didi-Huberman), sulla lunga durata e sull'istante presente. Da una parte dicono di un tempo remotissimo, dall'altra, non solo stanno qui adesso ma racchiudono i sintomi di atti continuamente operanti, di un tempo che "più che scorrere, lavora" (Didi-Huberman). Miniature d'eternità, questi fossili non significano tempo senza fine ma nunc stans, un "eterno ora" che assorbe passato, presente e futuro, dove tutto accade ed è compreso nella pienezza e nella perfezione. Un tempo cairologico, attesa che contiene la simultaneità temporale e il momento di grazia di una natura generosa, amorosa, sottilmente erotica, che si dispiega all'esperienza dell'unità mistica, una natura di cui Clara Janés sa ascoltare i ritmi profondi.